Allevando e riproducendo pappagalli in cattività, ho sempre creduto nell’importanza di fornire ai nostri animali una dieta estremamente variegata composta in buona parte da cibi selvatici e vegetali spontanei, che possano imitare l’alimentazione naturale delle specie e mantenere impegnati gli esemplari nella consumazione, al fine di apportare nutrimenti difficilmente reperibili altrove e proporre con continuità nuovi stimoli psicologici.
Tuttavia spesse volte l’allevatore si trova in difficoltà nel decidere quali vegetali raccogliere e somministrare, temendo sempre di introdurre in un ambiente limitato cibi potenzialmente tossici; inoltre ogni specie di pappagallo, in relazione alla propria dieta ancestrale e alla vegetazione caratteristica del biotopo di provenienza, tende a prediligere determinate fonti di cibo rispetto ad altre, ed è per questo necessario conoscere quali vegetali meglio si adattano alle esigenze di ogni Psittacide.
Di certo il metodo più ovvio (ma anche meno scontato) per raccogliere simili informazioni, e al contempo poter documentare dal punto di vista scientifico il comportamento delle specie allo stato selvatico, consiste nel lasciare che ogni pappagallo possa scegliere in modo del tutto incondizionato le fonti di cibo che meglio si identificano con la sua dieta ancestrale.
La pratica del foraging in libertà consiste quindi nel lasciare agli esemplari la facoltà di abbandonare le voliere per nutrirsi a piacimento nell’area circostante, assicurandosi sempre la garanzia che i soggetti liberati sentano in breve tempo la necessità di fare ritorno alla propria dimora: l’allevatore appostato nelle vicinanze potrà monitorare gli animali e annotare preziose informazioni utili sia sotto il profilo scientifico che sotto quello pratico.
In passato, quando le industrie mangimistiche non avevano ancora sviluppato prodotti preformulati specie-specifici, tale prassi veniva utilizzata per ottenere migliori risultati riproduttivi nelle specie con elevata specializzazione alimentare, quali lori e altri frugivori, poiché permetteva ai riproduttori con a carico una prole di ricercare i vegetali più adatti con cui nutrire i loro pulli: Hastings Russell, duca di Belford e celebre ornitologo inglese, riuscì a riprodurre agli albori del ‘900 alcuni lorichetti – tra cui il Vini peruviana e il Vini ultramarina – utilizzando questa tecnica; egli apriva le porte delle voliere durante il giorno per poi serrarle a sera, una volta che gli animali si erano ritirati per dormire e nutrire i giovani, al fine di preservare nidi e genitori dall’attacco di predatori.
Nonostante ciò venisse praticato con successo e con bassi tassi di incidenti, risulta evidente come la suddetta modalità comporti rischi elevati, legati all’elevata permanenza degli animali al di fuori dell’ambiente protetto dell’aviario: per i fini di studio e osservazione che attualmente ci prefiggiamo, una pratica regolare e prolungata nel tempo non risulta necessaria; inoltre, la presenza di piccoli nel nido incrementa i fattori di rischio: è senz’altro più oculato praticare il foraging in libertà al di fuori del periodo riproduttivo, senza timore di interferire con le attività di allevamento delle coppie.
Personalmente ho praticato più di una volta il foraging, adottando una modalità che mi assicura a mio avviso un buon margine di sicurezza.
Chiarisco che con queste righe non intendo incentivare tale pratica, né consigliare modalità assolutamente sicure per liberare i vostri pappagalli, anzi sconsiglio vivamente a chiunque non possieda un’adeguata esperienza o grado di conoscenza dei propri animali di tentare di imitare quanto riportato sotto: l’articolo vuole solamente riportare un’esperienza interessante dal punto di vista scientifico.
La mia principale garanzia è rappresentata dall’ottimo ambiente di cui dispongo per alloggiare i miei animali e un’ampia conoscenza delle coppie a cui permetto di abbandonare le voliere: l’allevamento è ubicato in un bosco particolarmente fitto e ricco di cespugli e alberi ad alto fusto principalmente spontanei: le voliere sono distribuite in questo ambiente, situate – o quasi “incastrate” – tra un tronco e l’altro, e ogni alloggio è contornato da intricata vegetazione; pioppi, querce, frassini e olmi coprono il cielo sopra i tetti con le loro frasche - liberare i pappagalli a cielo aperto li espone ad attacchi di rapaci e gazze - e il perimetro dell’area è delimitato da una siepe di rovi, abbinata a una recinzione con rete elettrosaldata di altezza variabile per eludere l’ingresso di predatori terrestri. Oltre questa si estendono prati aperti e senza alcun potenziale appoggio per volatili, il che scoraggia ulteriormente gli animali dall’allontanarsi dal sito d’allevamento e mi permette di mantenere un buon controllo su di esso.
Ovviamente procedo con l’individuare una coppia adulta, molto affiatata, tranquilla e affidabile (in caso di avvicinamento dell’allevatore, gli animali non devono mostrarsi impauriti ma incuriositi), già ambientata da tempo e riprodotta in una determinata voliera, con nido a disposizione anche se al di fuori della stagione cove; mi accerto inoltre che nelle vicinanze non siano presenti altre voliere di conspecifici o specie affini, i cui ospiti potrebbero attirare e distrarre per lungo tempo l’animale liberato in inutili litigi per ragioni di territorialità.
La prassi che seguo è sotto descritta.
Alla mattina di una giornata di bel tempo, soleggiata e non ventosa, inserisco un membro della coppia (di norma la femmina) in una gabbia di dimensioni ridotte (normalmente un cubo da 40 cm di lato per specie di taglia piccolo-media) con sbarre sufficientemente distanziate da permettere al maschio di imbeccare la femmina attraverso di esse (VEDI SESTA E NONA FOTO)
Il contenitore viene quindi appeso internamente alla voliera principale a distanza dalla porta e, procedendo con molta calma per non spaventare gli animali, essa verrà spalancata e fissata in modo che non possa richiudersi o muoversi: è fondamentale che la porta presenti dimensioni ampie e contorni ben evidenti in modo che possano essere facilmente individuate dal pappagallo.
Quando il secondo membro della coppia (il maschio) si sarà calmato e si dimostrerà tranquillo e curioso, comincio ad allontanarmi per lasciare all’animale la possibilità di abbandonare temporaneamente la compagna e uscire al di fuori della voliera: se tutto procede correttamente, l’animale dovrà avanzare lentamente e con fare incuriosito, passando poi ad esplorare l’ambiente circostante, a stazionare nei pressi della voliera ad una ridotta altezza dal suolo; una volta esplorato l’ambiente circostante (con un raggio variabile dai 3 ai 10 metri a seconda della temerarietà della specie) comincerà a nutrirsi e praticare foraging sulle specie vegetali presenti nelle vicinanze.
Molto presto (solitamente un tempo non superiore a qualche ora), il soggetto ormai soddisfatto e attirato dai continui richiami della femmina si avvicinerà alla propria voliera, allontanandosi e facendovi ritorno più volte nel tentativo di mantenere un continuo contatto visivo e uditivo con la compagna; in breve tempo, si deciderà a rientrare nell’alloggio per imboccare il partner: a tal punto, mi affretto a richiudere la porta e riunire la coppia, considerando conclusa con successo l’esperienza di foraging.
In tutta la procedura, il mio ruolo consisterà nel mantenermi appostato nelle vicinanze, ben nascosto tra il fogliame, per monitorare la situazione e annotare i comportamenti degli animali: è fondamentale non interferire con i loro spostamenti e non palesarsi vicino a loro, per evitare di indurli, spaventandoli, ad allontanarsi dalla voliera più di quanto essi desiderino.
Alcune volte tuttavia è lo stesso animale a “cercare” l’allevatore, avvicinandosi in modo alquanto spavaldo e mostrandosi molto più temerario di quanto sarebbe stato in voliera: probabilmente, sapendo di poter avere maggiori vie di fuga a disposizione, i soggetti acquistano sicurezza, oppure tale comportamento nasconde ragioni di territorialità, poiché risulta simile a quello esibito dai riproduttori quando occorre difendere un nido con uova o prole.
Durante l’estate 2019 ho permesso di praticare foraging in libertà a diverse specie presenti nel mio allevamento, tra cui rosella di brown, pyrrhura hoffmanni, pyrrhura molinae, brotogeris cyanoptera e caicchi testa nera, ripetendo diverse volte l’esperimento con una stessa coppia: col susseguirsi dei tentativi, gli esemplari hanno acquistato più fiducia col territorio, assaggiando nuovi cibi e stazionando anche al suolo per nutrirsi con erbe prative o ricercare qualche insetto tra la terra mossa. In tal caso si è rivelato fondamentale la precedente pulizia delle aree più prossime alle altre voliere, per evitare che gli animali liberati cercassero di nutrirsi con gli scarti caduti dalle mangiatoie.
I risultati ottenuti e le informazioni annotate sono state innumerevoli e preziose: hanno riguardato sia le abitudini delle specie, distinguendo gli animali con tendenze arboricole da quelli più terricole, i comportamenti mantenuti allo stato selvatico e le fonti di cibo predilette, le quali si sono notevolmente differenziate tra le 5 specie summenzionate.
I platycercus venustus, ad esempio, hanno ricercato soprattutto i germogli di pioppo, cedro e bambù, avvicinandosi spesso al suolo per “raspare” nei punti dove il terreno si presentava nudo; i brotogeris da parte loro, hanno manifestato le loro predilezioni frugivore puntando direttamente a prugnini selvatici e mele eccessivamente mature; cosi come i pyrrhura hanno preferito consumare bacche di vario genere, tra cui biancospino e bargnolino, oltre alle sementi di festuca accessibili da i rami più bassi degli alberi.
I pionites infine hanno abbrezzato i frutti di rosa canina, avvicinandosi poi al suolo per assaggiare ghiande immature cadute da una vecchia quercia.
Riproponendo successivamente gli alimenti suddetti nelle voliere delle coppie, ho subito riscontrato particolare gradimento.
Certamente avrò modo di riportare in altre sedi altre osservazioni a cui ho potuto assistere, abbinate ai loro risvolti pratici in allevamento.